| De Gregori si rifà ed evoca il sapore della sopravvivenza
Questa volta nel nuovo disco di Francesco De Gregori la stanchezza si sente tutta, e anche la sensazione che le cose siano già state interamente dette – e bene – e che in questa fase di una carriera lunghissima ci si ritrovi più che altro a fare accademia, a ricamare, ad ammiccare, quando – questo è peggio di tutto – non ci si senta in dovere, per soddisfare le aspettative, di sganciare il pezzo ad alto tasso di rappresentatività, il polso del politico, la critica graffiante al nostro sociale. Questo accade in “Per brevità chiamato artista”, nuovo album del cantautore romano, che pure suona col consueto garbo, offre contributi musicali misurati, ma davvero non sorprende mai e l’impressione d’essere strapieno di parole, definizioni e quadretti, amare ironie e sdegnati rimbrotti verso un presente che non perde l’occasione per essere scandaloso e sguaiato e verso le cose e le scelte che regolarmente imboccano la via sbagliata (“Parlare e razzolare insieme” dice Francesco in “Celebrazione”, appunto uno di quei pezzi destinati all’esegesi nelle pagine di politica interna dei quotidiani, dal momento che dovrebbero contenere il distillato di saggezza e le ultime tracce di poesia – in questo caso borghese e illuminata, in altri, Celentano ad esempio, popolare e naif). Il fatto è che da un lato De Gregori e il suo canzoniere fanno parte di noi, hanno nella maggior parte di noi corrispondenze emotive e simboli ai quali aggrapparsi. Dall’altro lato questo ruolo del “cantante per dolce condanna” che da tempo Francesco impersona nelle sue apparizioni, colui che va in tour perché non sa fare altro di meglio, perché ha un debito di riconoscenza coi fans, perché a una certa ora del primo mattino le sue canzoni lo svegliano facendogli il solletico nelle orecchie ed ecco che lui si ritrova a essere l’uomo per brevità chiamato artista, oltre a diventare un atteggiamento mainstream (vi rendete conto quanti 50-60enni oggi sono in prima fila nella scena musicale, che un tempo s’identificava con quella giovanile?), questo mantenersi diligentemente sulle tracce dylaniane, con la sua Bobbiness che ormai è in tournée permanente da sei o sette o otto anni, questo continuare a essere un recording artist sfornando con discreta puntualità la raccolta di nuove canzoni, tutto ciò si scontra col tempo che passa, le malinconie che gli sferragliano dietro, i sorrisi che si fanno più rari e le ombre che si addensano. Tutto ciò detto con rispetto, affetto e personale riconoscenza. E poi, di certo, le goffaggini di Francesco quando canta “Carne umana per colazione” e vuole essere sardonico e provocatorio ma appare stanco e appesantito, ci fanno tenerezza e sono un peccato veniale. Tanto, comunque, se questa estate passa nel raggio di 50 chilometri dalla casa al mare ci si va. E si finisce al solito per commuoversi e dire “Hai visto quanta gente?”, “Hai visto quanti ragazzini?”.
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